Il 26 marzo, in un’intervista con La Stampa, l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha commentato l’emergenza coronavirus in Italia, con particolare riferimento alla difficile situazione in Lombardia.

Secondo il leader di Forza Italia, «l’inquinamento è un grave problema ma non c’è alcuna evidenza scientifica di un possibile collegamento con la pandemia».

Negli ultimi giorni è infatti circolata molto, sui social e su alcuni quotidiani, una ricerca italiana che avrebbe mostrato un legame tra il livello di inquinamento nella Pianura Padana e i maggiori tassi di contagio in Italia.

Significa dunque che in effetti esisterebbe davvero un’«evidenza scientifica» a riguardo, a differenza di quanto dice Berlusconi? Facciamo un po’ di chiarezza.

Il problema dell’inquinamento, in breve

Secondo le stime del Ministero della Salute, pubblicate nel 2015, ogni anno in Italia l’inquinamento atmosferico è responsabile di circa 30 mila decessi «solo per il particolato fine», ossia il cosiddetto Pm 2,5. La sigla “Pm” sta per particulate matter, o “particolato” in italiano, un’espressione che indica il pulviscolo in sospensione nell’aria generato, per esempio, dalle attività umane, come la combustione da fonti fossili per i trasporti o per il riscaldamento domestico.

«Possono essere individuate due classi principali di particolato, suddivise sia per dimensioni, sia per composizione: particolato grossolano e particolato fine», spiega il Ministero della Salute.

Il particolato fine, come abbiamo visto, è chiamato Pm2,5 perché è costituito da particelle di polvere con un diametro aerodinamico inferiore a 2,5 micrometri, un’unità di misura che rappresente un millesimo di millimetro. Il particolato grossolano, chiamato anche Pm10, è invece formato da particelle con un diametro inferiore ai 10 micrometri.

Mentre il Pm10 è in grado di penetrare nel tratto respiratorio superiore (costituito da naso, faringe e trachea), il Pm2,5 può arrivare nella profondità nei polmoni, soprattutto durante la respirazione dalla bocca.

«Numerosi studi hanno evidenziato una correlazione tra esposizione acuta a particolato aerodiperso e sintomi respiratori, alterazioni della funzionalità respiratoria, ricoveri in ospedale e mortalità per malattie respiratorie», scrive il Ministero della Salute. «Inoltre, l’esposizione prolungata nel tempo a particolato, già a partire da basse dosi, è associata all’incremento di mortalità per malattie respiratorie e di patologie quali bronchiti croniche, asma e riduzione della funzionalità respiratoria. L’esposizione cronica, inoltre, è verosimilmente associata ad un incremento di rischio di tumore delle vie respiratorie».

In più, insieme all’effetto causato dalle polveri sottili, c’è anche quello di altre sostanze, come il biossido di azoto e l’ozono, che in grandi quantità nell’aria fanno aumentare le morti premature in Italia causate dall’inquinamento, secondo le stime dell’Agenzia europea dell’ambiente. E nel nostro Paese, le aree più colpite sono da decenni proprio quelle del Nord, in particolare tutta la zona della Pianura Padana.

Ma esistono studi scientifici che abbiano mostrato un collegamento tra questo fenomeno e il fatto che ad oggi le regioni con più contagi e morti da nuovo coronavirus siano Lombardia, Emilia-Romagna?

La “ricerca” italiana sull’inquinamento e il coronavirus

Negli ultimi giorni è stata molto citata – sia da alcuni quotidiani italiani sia da alcuni politici, come l’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti – una ricerca pubblicata a inizio marzo dalla Società italiana di medicina ambientale (Sima), che, come spiega il suo sito ufficiale, «si prefigge lo scopo di tutelare la salute umana tramite la salvaguardia e la valorizzazione della natura e dell’ambiente».

Questo studio è tecnicamente un position paper, e non è quindi una vera e propria ricerca scientifica (sottoposta, per esempio, al controllo di peer rewiew e poi pubblicata su una rivista scientifica), anche se è stata realizzata da 12 membri della Sima, tra cui alcuni ricercatori delle Università di Bologna, Bari e Milano.

Questo è stato il «primo lancio di un’idea scientifica a nostro parere fondata, ma non ancora supportata da un’evidenza tale da poter essere pubblicata su una rivista scientifica», hanno scritto gli autori in una replica a un articolo uscito su Open il 19 marzo scorso.

In sintesi: i ricercatori hanno confrontato il numero di giorni di sforamento dei limiti di Pm10 nell’aria, tra il 10 e il 29 febbraio 2020 (sulla base dei dati Arpa), con quello del numero dei contagiati da nuovo coronavirus aggiornati al 3 marzo scorso (dati della Protezione civile), scoprendo che sembra esserci una correlazione tra le due cose.

Le aree con il numero maggiore di giorni di sforamento, come la Pianura padana, mostrano infatti anche il maggior numero di contagi.

Da un punto di vista scientifico, il collegamento tra inquinamento e coronavirus sarebbe supportato – oltre che da questa correlazione – anche da studi passati, che secondo gli autori avrebbero mostrato come il particolato atmosferico possa fungere da vettore di trasporto per i virus, aumentando le possibilità di contagio.

In particolare, vengono citati quattro studi: uno del 2010 sull’influenza aviaria e le sua concentrazione nelle polveri nell’aria durante le tempeste di sabbia; un altro del 2016 sulla correlazione tra il virus respiratorio sinciziale (un particolare virus che colpisce le vie respiratorie) nei bambini e l’inquinamento in una regione della Cina; e altri due (uno del 2017 e un altro del 2020) sulla relazione tra inquinamento e casi di morbillo sempre in alcune città della Cina.

Secondo gli autori, le loro analisi sembrano dunque «dimostrare che, in relazione al periodo 10-29 febbraio, concentrazioni elevate superiori al limite di PM10 in alcune Province del Nord Italia possano aver esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia in Pianura Padana che non si è osservata in altre zone d’Italia che presentavano casi di contagi nello stesso periodo».

Come abbiamo visto, però, sono stati gli stessi autori del position paper a sottolineare che non si tratta di una pubblicazione scientifica a tutti gli effetti: si tratta solo di un’ipotesi, per di più su una correlazione tra due fenomeni (inquinamento e contagio), e non di un relazione di causa-effetto.

Che cosa dicono gli esperti e altri studi

Negli ultimi giorni, diversi esperti – tra virologi e epidemiologi – hanno messo in guardia dal sostenere che l’inquinamento aumenterebbe la portata della pandemia del nuovo coronavirus.

Il virologo dell’Università degli Studi di Milano Fabrizio Pregliasco ha detto a Fanpage che questa ipotesi è solo «teorica», mentre la virologa Ilaria Capua, dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, ospite a DiMartedì il 18 marzo 2020, ha dichiarato di non credere che «la causa dell’aggressività del virus in Lombardia sia l’inquinamento».

Il 19 marzo, invece, l’epidemiologo dell’Università di Pisa Pierluigi Lopalco ha scritto su Twitter che «l’inquinamento fa male, ma con #COVID19 [la malattia causata dal nuovo coronavirus, ndr] ho paura che c’entri poco», condividendo un articolo del Sole 24 Ore che raccontava quanto scritto nello studio della Sima. «Non pensate che l’aria fresca possa fermare il contagio: il virus corre con le nostre gambe, non con i Pm10», ha aggiunto Lopalco.

Al momento dunque possiamo dire che non c’è un’evidenza scientifica per sostenere che maggiori livelli di inquinamento siano collegati causalmente alla pandemia del nuovo coronavirus, ma è anche vero – come abbiamo visto – che l’inquinamento può causare gravi problemi alla salute alle persone.

Come ha spiegato il quotidiano britannico The Guardian, in un approfondimento del 17 marzo, esistono alcuni studi che mostrano come in passato siano state rilevate correlazioni tra i livelli di inquinamento in alcune città della Cina e la diffusione della Sars, oppure tra l’incidenza della Mers tra i fumatori (un’evidenza analoga è stata registrata anche nei contagiati da nuovo coronavirus, in uno studio però non ancora stato oggetto di peer review).

«Sulla base di quello che sappiamo attualmente, è molto probabile che le persone esposte a maggiore inquinamento atmosferico e che fumano possano avere effetti maggiormente negativi se infettati da Covid-19 rispetto a chi respira un’aria più pulita e non fuma», ha detto il 15 marzo al Washington Post Aaron Bernstein, direttore del Center for Climate, Health, and the Global Environment presso la Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston, Stati Uniti.

Il verdetto

Secondo Silvio Berlusconi, «l’inquinamento è un grave problema ma non c’è alcuna evidenza scientifica di un possibile collegamento con la pandemia» da nuovo coronavirus. Abbiamo verificato e in base agli studi condotti fino ad oggi, l’ex presidente del Consiglio ha ragione.

È vero che l’inquinamento atmosferico causa ogni anno decine di migliaia di morti premature in Italia, in particolare nella Pianura Padana, l’area più colpita in Italia dal nuovo coronavirus, ma non ci sono ricerche pubblicate su riviste scientifiche che mostrino un solido collegamento tra i due fenomeni.

È uscito qualche settimana fa uno studio – realizzato da alcuni ricercatori italiani, ma non sottoposto a peer review e non pubblicato su una rivista scientifica – che mostra una possibile correlazione tra gli alti livelli di inquinamento nella Pianura Padana e la diffusione del nuovo coronavirus in quelle aree.

Al momento, però, si tratta solo di una correlazione, e non di una spiegazione causale. È poi vero che ci sono studi che sottolineano come l’inquinamento possa peggiorare gli effetti del virus su persone già debilitate, ma anche in questo caso, per quanto riguarda il coronavirus, non ci sono ancora studi.

“Vero”, dunque, per Berlusconi.