Il 28 novembre il senatore Maurizio Gasparri (Forza Italia) si è schierato contro la web tax proposta dal governo giallorosso, affermando che «il governo […] si inginocchia ancora una volta ai giganti della rete fissando ad un misero 3% del loro fatturato l’aliquota da versare. Un’autentica vergogna» ha detto il senatore.

Al di là dell’opinione che si tratti di una “vergogna” e di una genuflessione, vediamo i fatti.

Di che cosa stiamo parlando

Con il termine “web tax” ci si riferisce di solito alle misure di tassazione che i governi o le organizzazioni sovranazionali — come, ad esempio, l’Unione Europea — applicano sui ricavi dei provider di servizi digitali.

Come ha spiegato sul sito Eticaeconomia da Bruno Bises, professore di scienze delle Finanze all’Università Roma Tre, questo tipo di provvedimenti si rendono necessari perché le aziende che forniscono questi servizi (come, ad esempio, Amazon, Facebook e Google) generano utili in vari Paesi, ma trovano modi per versare le imposte solamente nelle giurisdizioni a loro fiscalmente vantaggiose.

Queste mancate entrate possono essere particolarmente consistenti per lo Stato. Per fare un esempio, secondo uno studio commissionato nel 2017 dal Partito socialista europeo, si stima che tra il 2013 e il 2015 l’Italia avrebbe potuto ricavare 549 milioni di euro se avesse avuto un’imposta tra il 2 e il 5 per cento sui proventi di Google e Facebook.

Non c’è due senza tre

Vista l’entità delle possibili entrate, di recente i governi italiani hanno provato a introdurre una forma di tassazione dei servizi digitali.

Il primo esecutivo a intestarsi questa battaglia è stato quello guidato da Paolo Gentiloni. Con la legge di Bilancio per il 2018 (legge 205/2017, art. 1, commi 1011–1019), la maggioranza di governo aveva infatti proposto di adottare un’imposta con aliquota del 3 per cento sulle transazione digitali. La legge prevedeva che tutti i dettagli di questa nuova imposta (tra cui il tipo di prestazioni da tassare) venissero stabiliti da successivi decreti ministeriali. Come riporta un articolo del 19 luglio 2019 de LaVoce.info di Tommaso di Tanno, docente del Master tributario dell’Univesità Bocconi, al 30 aprile 2018 (termine ultimo stabilito dalla legge) i decreti attuativi non erano stati adottati. La web tax del governo Gentiloni è quindi rimasta lettera morta.

Un destino simile è toccato al secondo tentativo di adozione della web tax. Questa volta, la norma era stata sostenuta dal Governo Conte I, che l’aveva introdotta con la legge di Bilancio per il 2019 (legge 145/2018, art. 1, commi 35–50). A differenza di quella voluta dal governo Gentiloni, il testo della legge di Bilancio specificava a chi si applicasse questa imposta. In particolare, erano tenuti (art. 1, comma 36) al versamento dell’imposta sui servizi digitali (anche in questo caso con un’aliquota del 3 per cento) tutte le imprese con un fatturato globale di almeno 750 milioni di euro, di cui almeno 5,5 milioni derivanti dalla prestazione di servizi digitali in territorio italiano. Anche in questo caso però, l’imposta non è mai entrata in vigore a causa della mancata adozione dei necessari decreti attuativi.

Per ultimo, il governo Conte II ha introdotto nel disegno della legge di Bilancio per il 2020 una modifica all’Imposta sui servizi digitali del governo gialloverde, per fare in modo che questa possa entrare in vigore nel 2020. Anche in questo caso, come sottolineato correttamente da Gasparri, l’aliquota è del 3 per cento. Allo stesso tempo, in nessuno dei casi analizzati l’imposta si applica sul fatturato di queste aziende, ma sulle operazioni da loro svolte quando forniscono servizi digitali.

Perché proprio il 3 per cento

Quindi, sebbene quello giallorosso non sia stato il primo governo a proporre un simile valore, Maurizio Gasparri ha ragione quando dice che la web tax voluta dall’attuale esecutivo ha un’aliquota del 3 per cento.

Contrariamente da quanto sembra suggerire Gasparri, questo numero non è però il risultato di una scelta presa in autonomia dal governo Conte II. Infatti, l’aliquota del 3 per cento – così come la soglia di fatturato pari a 750 milioni di euro – è quella prevista per tutti i Paesi europei nella proposta di direttiva europea sui servizi digitali, al momento in fase di negoziazione. Nella proposta, che se approvata definitivamente diventerà vincolante per gli Stati membri, si sostiene che proprio un’aliquota del 3 per cento è l’unica in grado di raggiungere un equilibrio tra la necessità degli Stati di raccogliere imposte adeguate e quello di imprese con margini di profitti diversi di continuare a fornire i propri servizi. Quindi, a prescindere dalla bontà di avere un’unica aliquota pari al 3 per cento, se la direttiva venisse adottata i Paesi con un’aliquota diversa si troverebbero in violazione delle norme europee.

A questo si aggiunge il fatto che, anche volendo, all’Italia non converrebbe adottare un’aliquota superiore al 3 per cento, se altri Paesi stabilissero quella soglia. Infatti, come ricorda tanto l’Ue quanto l’Ocse, adottare differenti livelli di tassazione sui servizi digitali porta a problemi di coordinamento fra le giurisdizioni, rischia di rendere l’imposta inefficace e spinge le aziende a scegliere i Paesi con l’imposta più vantaggiosa.

Il verdetto

Il 28 novembre il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha criticato l’imposta sui servizi digitali (la web tax) che il governo vorrebbe introdurre, dicendo che con un’aliquota del 3 per cento il governo «si inginocchia ancora una volta ai giganti della rete».

Al di là del giudizio di valore, per quanto riguarda l’entità della web tax Gasparri ha ragione. L’esecutivo Conte II, così come il governo Gentiloni e Conte I, ha deciso di rendere operativa un’aliquota del 3 per cento sui servizi digitali. Allo stesso tempo, è importante precisare che il governo ha fatto una scelta coerente con quanto fatto dai precedenti esecutivo e con quanto proposto dalla direttiva europea sui servizi digitali. Ma sul fatto alla base della sua dichiarazione – l’imposizione di una web tax al 3 per cento – Gasparri ha ragione e si merita quindi un “Vero”.