Il reggente del Movimento 5 stelle Vito Crimi l’ha chiamato «cronoprogramma». Il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti ha parlato di «patto di legislatura». Il leader di Italia viva Matteo Renzi l’ha definito «un documento scritto». Al di là delle sfumature lessicali: è tornato il contratto di governo.

Dopo il primo giro di consultazioni con il presidente della Camera Roberto Fico, i partiti della precedente maggioranza (Movimento 5 stelle, Partito democratico, Liberi uguali e Italia viva e il nuovo gruppo dei responsabili) si sono detti d’accordo sulla necessità di stabilire insieme i temi da cui ripartire per un eventuale nuovo governo.

Dovesse concretizzarsi, sarebbe il terzo “contratto” dall’inizio della legislatura: il primo ha sancito la nascita del governo fra Lega e Movimento 5 stelle nel 2018. Il secondo, a voler essere precisi, non aveva una vera e propria forma contrattuale, si chiamava “programma” e metteva nero su bianco 29 punti condivisi fra Pd e M5s. Del terzo, sempre che si faccia, sapremo solo nei prossimi giorni.

Perché l’esigenza di un documento scritto è sempre più ricorrente negli ultimi anni? Lo spiega il costituzionalista Sabino Cassese in un’intervista al Messaggero: «L’unico modo per tenere insieme forze politiche disomogenee è quello di mettere i programmi per iscritto e di stabilire anche la loro tempistica». Più sono diversi, e meno si fidano l’un l’altro, più si rende necessario un accordo pubblico, riconosciuto formalmente. Bisogna tuttavia ricordare che entrambi i precedenti non sono stati sufficienti a evitare la rottura fra i partiti di governo.

Vediamo insieme come si è arrivati ai precedenti contratti e da dove viene questa procedura.

Il “tavolo di lavoro”

Il presidente della Camera Roberto Fico, dopo aver ricevuto un mandato esplorativo dal capo dello Stato, sta verificando la “fattibilità” di una nuova coalizione di governo a partire dalla stessa maggioranza che sosteneva l’esecutivo uscente (Movimento 5 stelle, Partito democratico, Liberi e uguali, Italia viva e il nuovo gruppo degli Europeisti). Sabato 30 e domenica 31 gennaio Fico ha incontrato separatamente i rappresentanti delle forze politiche: tutti hanno confermato, per ora, la propria disponibilità a un accordo. Si è però deciso di procedere prima sui temi e poi sui nomi: una modalità spinta in particolar modo da Matteo Renzi, il cui partito è l’unico a non aver dato il via libera sul reincarico al presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

E così, il 1° febbraio, dalle 9:30, i rappresentanti dei partiti si sono letteralmente seduti intorno a un tavolo nella Sala della Lupa di Montecitorio per stabilire quali obiettivi possano riportarli insieme all’interno di un nuovo esecutivo. Tre temi rischiano di essere particolarmente esplosivi: la linea di credito per la sanità del Mes (il Pandemic crisis support), invocata da Italia viva e osteggiata dal Movimento 5 stelle; la giustizia, su cui si consuma da sempre la contrapposizione fra Partito democratico e Italia viva da un lato, e il M5s dall’altro; e infine, la legge elettorale proporzionale, con i partiti più piccoli poco favorevoli a una soglia di sbarramento che possa costringerli a confluire in coalizioni più ampie. Il presidente Fico è stato presente solo all’inizio della riunione, poi ha lasciato i partiti alle proprie trattative.

Il tempo però stringe, e in questo caso non è affatto un modo dire: entro domani sera, martedì 2 febbraio, il presidente della Camera Roberto Fico dovrà tornare al Quirinale per riferire sull’esito della sua “esplorazione”.

Il governo gialloverde

Nell’ottobre 2018, la Treccani ha inserito l’espressione “contratto di governo” fra le «parola delle neopolitica». Il contratto è stato senza dubbio l’elemento caratterizzante e più riconoscibile nel difficile percorso di formazione del governo gialloverde.

Il primo a proporlo era stato l’allora capo politico del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio, in un post sul Blog delle stelle del 4 aprile 2018, prima ancora di aver scelto un “partner” con cui siglarlo: «proponiamo un contratto di governo come quello che viene sottoscritto dalle principali forze politiche in Germania dal 1961. (…) Non è un accordo, né un’alleanza, è un impegno che forze politiche alternative, e anche distanti, assumono davanti ai cittadini, prendendosi la responsabilità di lavorare insieme per il bene degli italiani. Proponiamo di scrivere insieme questo contratto di governo alla Lega o al Partito Democratico» .

Alla fine è toccato alla Lega. Dal 12 maggio al 16 maggio, per sei giorni consecutivi, si sono susseguiti gli incontri fra i rappresentanti del Carroccio e quelli del Movimento 5 stelle, per lo più al Pirellone di Milano. Il 17 maggio, il contratto – ufficialmente “Contratto per il governo del cambiamento” – era pronto e veniva sottoposto sulla piattaforma online Rousseau al voto degli attivisti Cinque stelle e nei gazebo sparsi per le piazze italiane ai militanti della Lega.

Sviluppato per 56 pagine su 30 temi differenti, il contratto fra Lega e Movimento 5 stelle ha stupito, in particolar modo, perché era stato impostato, per alcuni aspetti, come un contratto privato: in testa compariva una pagina per l’autenticazione delle firme di Matteo Salvini e Luigi Di Maio alla presenza di un notaio.

L’esperienza del contratto fra Lega e Movimento 5 stelle non può essere citato come un precedente di successo per due motivi. Come abbiamo verificato in passato, in un anno di governo sono state mantenute solo il 13 per cento delle promesse contenute nel documento. E in secondo luogo, l’accordo non è bastato a tenere i due contraenti insieme: l’esecutivo gialloverde è comunque naufragato ad agosto 2019, dopo mesi di scontri proprio sui temi più divisivi (ad esempio, la Tav).

Vediamo ora meglio qual è il modello tedesco, di cui già parlava Luigi Di Maio nel suo post di aprile 2018.

Il contratto “alla tedesca”

Come abbiamo spiegato in passato, è vero che in Germania sia tradizione per le forze politiche sottoscrivere un accordo di governo. L’accordo più recente, dal titolo “Una nuova partenza per l’Europa”, di 175 pagine, è stato firmato il 12 marzo 2018 dalla Cdu/Csu (conservatori) e dalla Spd (socialdemocratici).

Questo genere di accordo viene siglato dopo il voto perché, con il sistema elettorale proporzionale che vige nel Paese, è normale che le coalizioni nascano dopo le elezioni piuttosto che prima. Succedeva anche in Italia durante la Prima Repubblica e succede oggi come risultato della legge elettorale Rosatellum bis, un sistema prevalentemente proporzionale.

Nonostante ci siano testimonianze di accordi anche precedenti, il primo “contratto di coalizione” tedesco viene fatto risalire al 1961 perché quell’anno, per la prima volta, ha assunto questa denominazione ufficiale (in tedesco Koalitionsvertrag).

Udo Gümpel, corrispondente dall’Italia dal 1997 per la tv tedesca, contattato da Pagella Politica nei giorni del primo contratto di governo italiano, aveva spiegato che il Koalitionsvertrag «è una dichiarazione di volontà politica, che non può essere in alcun modo vincolante perché in Germania – come del resto anche in Italia (art. 67 cost. ndr.) – vige una norma costituzionale che impone il divieto di ‘mandato imperativo’ ai parlamentari. Questi rispondono solo alla nazione e agiscono secondo coscienza, qualsiasi accordo che andasse a limitare giuridicamente la loro coscienza sarebbe incostituzionale».

Il contratto di coalizione “alla tedesca” raccoglie, in sintesi, delle linee programmatiche per gli anni successivi, senza fornire troppi dettagli. Va detto che la stesura richiede in genere diversi mesi, non qualche giorno come nei casi italiani. Qualora non venga rispettato, non ci sono conseguenze per le forze politiche, se non quella di dover rispondere della propria incoerenza agli elettori.

Il programma Pd-M5s-Leu

Da ultimo abbiamo lasciato l’accordo fra Partito democratico, Movimento 5 stelle e Liberi e uguali perché non si tratta precisamente di un “contratto”: entrambi i partiti l’hanno sempre chiamato “programma” ed è un documento di 29 punti piuttosto generici.

Gli obiettivi qui contenuti sono stati concordati in tempi brevi. Il 28 agosto 2019 Giuseppe Conte ha accettato il nuovo incarico del presidente della Repubblica per un secondo governo da lui presieduto. Il 3 settembre 2019 è comparsa una prima bozza di 26 punti. Il 5 settembre è stata resa pubblica la versione definitiva, allargata a 29 punti.

Al termine del Conte bis, Pagella Politica ha fatto un bilancio sui 29 punti, verificando che anche questi siano stati largamente disattesi. Il secondo esecutivo di Giuseppe Conte si è però trovato a fronteggiare, a cinque mesi dall’insediamento, una pandemia senza precedenti che ha ovviamente assorbito l’agenda legislativa da gennaio 2020 a oggi.

Il “contratto con gli italiani” di Silvio Berlusconi

Il precedente più illustre quando si parla di contratti e politica è senz’altro il “contratto con gli italiani” di Silvio Berlusconi. A maggio 2001, cinque giorni prima delle elezioni politiche, Berlusconi, candidato premier del centrodestra, era ospite di Bruno Vespa a Porta a porta.

L’ex premier si presentò all’inizio della registrazione con un foglio dattiloscritto per poi leggerlo nel corso della trasmissione: «Tra Silvio Berlusconi e i cittadini italiani si conviene e si stipula quanto segue – diceva il testo – nel caso di vittoria della Casa delle libertà alle prossime elezioni politiche Silvio Berlusconi si impegna: abbassamento della pressione fiscale; difesa dei cittadini dalla criminalità e dai reati; aumento ad un milione al mese delle pensioni minime; creazione di un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro; realizzazione di almeno il 40 per cento del piano decennale per le opere pubbliche». Berlusconi firmò il documento davanti a Bruno Vespa e a milioni di spettatori. Non si trattava di un contratto fra i partiti, era quello che sarebbe stato ricordato come il “contratto con gli italiani”.

L’iniziativa, peraltro, era copiata dagli Stati Uniti. Nel 1994, il repubblicano Newt Gingrich, per le elezioni di metà mandato, organizzò sulle scalinate del Congresso una cerimonia durante la quale fu firmata una lista di dieci leggi che i repubblicani si impegnavano ad approvare se avessero avuto la maggioranza alla Camera. Si chiamava, appunto, “Contratto con l’America”.

L’idea di ricorrere a un contratto – o comunque a un patto sui temi – dopo le elezioni e per la formazione del governo, come abbiamo spiegato, è una conseguenza di una legge elettorale di tipo proporzionale. In passato c’erano già stati esempi di accordi fra i partiti politici, ma in genere precedenti alle elezioni e sotto forma di programmi elettorali. Un caso di scuola è quello dell’Unione che nel 2006 si presentò alle elezioni raggruppando una lista di partiti anche molto diversi fra di loro: i Democratici di sinistra (DS), la Margherita (DL), Rifondazione comunista (PRC), il Partito dei comunisti italiani (PdCI), l’Italia dei valori (IDV), i Socialisti democratici Italiani (SDI), la Federazione dei verdi, i Popolari Udeur e il Movimento repubblicani europei (MRE). Per mettere insieme tutte queste anime, si ricorse a un voluminoso programma elettorale di 281 pagine, precedente alle urne. Questo non bastò, tuttavia, ad impedire il collasso della coalizione e la caduta del secondo governo Prodi.

In conclusione

Il presidente della Camera Roberto Fico ha ricevuto un mandato esplorativo dal capo dello Stato per capire se sia possibile ricostituire una nuova maggioranza con gli stessi partiti che sostenevano il precedente governo.

Il 1° febbraio, i rappresentanti di Movimento 5 stelle, Partito democratico, Liberi e uguali, Italia viva e il neonato gruppo degli Europeisti si sono riuniti per stabilire un programma comune da cui ripartire con un nuovo esecutivo.

Non è ancora chiaro che forma avrà questo accordo. Il Movimento 5 stelle ha parlato di «cronoprogramma», il Pd di «patto di legislatura», Italia viva l’ha definito un «documento scritto». A tutti è sembrato, in buona sostanza, un contratto di governo.

Sarebbe il terzo dall’inizio della legislatura: il primo ha sancito la nascita del governo fra Lega e Movimento 5 stelle nel 2018. Il secondo non aveva una vera e propria forma contrattuale, si chiamava “programma” e metteva nero su bianco 29 punti condivisi fra Pd e M5s.

Vedremo se questo documento vedrà mai la luce – se avrà le sembianze di un contratto o rimarrà un accordo informale – oppure se il tavolo delle trattative salterà aprendo la strada a un governo istituzionale o, meno probabile, a un ritorno alle urne.