Nel dibattito che è seguito alle stragi di Bruxelles, ha suscitato reazioni molto accese una proposta dell’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema: garantire un sostegno finanziario pubblico alle comunità musulmane nel nostro Paese, al fine di “creare un Islam europeo” e di rispondere al fatto che parte delle comunità musulmane ha un problema di integrazione.



In un’intervista più volte ripresa – e andata in onda, ad esempio, durante il programma di Radio 1 Radio Anch’Io del 24 marzo scorso – D’Alema ha dichiarato: “Preferirei che potessero costruire le loro moschee come si costruiscono le chiese, con il denaro pubblico. In Italia c’è l’8 per mille per la Chiesa cattolica, ma c’è un milione e mezzo di musulmani che non sono riconosciuti” (a 17’ 25’’). D’Alema ha aggiunto che uno dei fenomeni da evitare è che, per mancanza di fondi e sostegno, le comunità musulmane siano più permeabili a finanziamenti e predicatori rigidi e conservatori, finanziati dalle monarchie del Golfo – come l’Arabia Saudita – che promuovono l’Islam radicale di tipo salafita.



Vediamo di dare qualche dato di contesto a questa proposta e al dibattito che ha suscitato, astenendoci da ogni giudizio politico.



1. Il numero dei musulmani in Italia



Prima di entrare più nello specifico nelle argomentazioni di D’Alema, prendiamo in considerazione qualche numero di contesto. Uno di essi è quello delle dimensioni della popolazione di religione musulmana in Italia e nei diversi Paesi europei. È una stima difficile per molti motivi, ma una delle più citate (soprattutto nell’ottica dei confronti europei) è quella del PEW Research Center statunitense. I numeri, che si riferiscono al 2010, sono riassunti nel grafico successivo: i Paesi europei che non vengono citati* hanno una popolazione di religione musulmana inferiore alle 10 mila unità.



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Il PEW pone il numero dei musulmani italiani più in alto rispetto al “milione e mezzo” citato da D’Alema. Quella di 2,2 milioni è effettivamente tra le stime più alte in circolazione. Le altre – che abbiamo citato qui – pongono il numero tra 1,5 e 1,7 milioni, ma di solito considerano solo gli stranieri residenti in Italia e non chi ha acquisito la cittadinanza italiana né gli italiani convertiti all’Islam.



L’Istat ha pubblicato nell’ottobre 2015 un report su “Appartenenza e pratica religiosa tra i cittadini stranieri”, riferito agli anni 2011-2012, in cui si stima che il 26,3% degli stranieri residenti in Italia con più di 6 anni sia di religione musulmana. Si tratta di circa 960.000 persone, a cui andranno aggiunti, come per le ricerche citate nel paragrafo precedente, gli stranieri presenti irregolarmente nel territorio italiano, chi ha conseguito la cittadinanza italiana e gli italiani convertiti all’Islam. Riassumendo, il numero di 1,5 milioni di musulmani in Italia è plausibile, viste le stime molto diverse che abbiamo a disposizione.



2. I rapporti tra l’Italia e le comunità religiose



Il governo italiano ha stipulato un accordo con la Chiesa Cattolica e diverse intese con le confessioni religiose presenti nel nostro Paese, poi approvate con leggi dal parlamento. L’articolo 8 della Costituzione stabilisce che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge” e che i loro rapporti con lo Stato sono appunto regolati da specifiche intese.



Per quanto riguarda la comunità – o forse sarebbe meglio dire “le comunità” – musulmane in Italia, il problema è complicato dal fatto che esistono diverse associazioni che rivendicano il diritto di rappresentare i musulmani in Italia, come sottolineato da diversi studi (ad esempio questo di S. A. Mancuso). Per questo, tra il 1992 e il 1996 sono state presentate quattro diverse proposte di intesa da altrettante associazioni rappresentanti i musulmani italiani e i successivi tentativi di unificazione della rappresentanza non hanno dato i risultati sperati.



La firma di un’intesa darebbe la possibilità alla comunità musulmana “unitaria” di ricevere l’8 per mille, la parte dell’Irpef che i contribuenti italiani possono destinare allo Stato o alle comunità religiose.



3. Il caso della Croazia



La proposta di D’Alema è stata criticata con toni molto duri da Matteo Salvini, leader della Lega Nord, che ha chiesto ironicamente se l’ex presidente del Consiglio fosse “matto”. Nel dibattito – in verità piuttosto scarso e poco approfondito – si è inserito, con toni molto vicini a quelli di Massimo D’Alema, anche Wael Farouq, professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano.



Parlando, come d’Alema, della necessità di un “Islam europeo”, Farouq ha riportato sulla rivista Vita l’esempio della Croazia, “un Paese nel quale i musulmani possano praticare i loro riti religiosi grazie alle tasse pagate dai cittadini croati” e ha sottolineato, quindi, che “la Croazia è l’unico Stato europeo dal quale nessun cittadino è partito per arruolarsi nei ranghi dell’Isis”.



Vale la pena di approfondire questo esempio. Per prima cosa bisogna notare che la Croazia ha una delle popolazioni musulmane più ridotte d’Europa, sia in termini assoluti che percentuali (l’1,4% di circa 4,3 milioni di persone), come si può vedere dal grafico citato in apertura.



Per quanto riguarda il numero dei foreign fighters, la ricerca più citata, negli ultimi mesi, sul loro numero è quella del Soufan Group (TSG), pubblicata inizialmente nel luglio 2014 e poi più volte aggiornata fino al dicembre 2015. Il Soufan Group è una società privata di consulenza e intelligence sui temi della sicurezza (prende il nome dal fondatore e attuale presidente Ali Soufan, un libanese-americano che è stato agente dell’Fbi ed è ritenuto una delle figure chiave nelle ricerche sul terrorismo islamico prima dell’11 settembre).



Il rapporto elenca un’ottantina di Paesi da cui sono partiti combattenti in Siria e Iraq: la Croazia non figura tra questi, a differenza di altri Paesi balcanici come la Serbia (50-70 persone secondo stime non ufficiali), la Bosnia (330 foreign fighters nei dati ufficiali), l’Albania (un centinaio), la Macedonia (146, dati ufficiali) e il Montenegro (una trentina di foreign fighters stimati).



La Croazia non è però un’eccezione assoluta. Stando alle ricerche del TSG, tuttavia, non ci sono o non si conoscono foreign fighters da molti altri Paesi Ue, specialmente dell’Europa orientale, come la Bulgaria, Cipro, la Repubblica Ceca, le repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), la Grecia, l’Ungheria, Malta, la Polonia, e la Slovacchia, né dalla Slovenia, un altro Paese balcanico al pari della Croazia.



4. Il caso del… Belgio



C’è però un altro caso che contraddice più direttamente la tesi secondo cui il finanziamento pubblico basti a garantire integrazione: ed è proprio quello del Belgio. Fin dal 1974, infatti, il Paese riconosce le comunità musulmane tra le beneficiarie di finanziamenti pubblici. Gli imam che aderiscono all’Exécutif des Musulmans de Belgique hanno stipendio e pensioni statali, oltre 70 moschee sono riconosciute (di cui 13 nella regione di Bruxelles e 5 a Molenbeek) e ricevono dunque compensazioni finanziarie da parte delle casse pubbliche.



5. In conclusione



La decisione di destinare finanziamenti pubblici alle comunità musulmane in Italia è una decisione politica e secondo la Costituzione è subordinata alla firma di un’intesa con una rappresentanza di quel culto. La sua opportunità può (e probabilmente deve) quindi essere discussa. Ma il problema non può essere eccessivamente semplificato e gli esempi europei di cui ci siamo occupati mostrano che, di per sé, i finanziamenti non sono una garanzia di assenza di radicalizzazione e di maggiore integrazione delle comunità.



* Slovacchia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca e Malta.